Nello stesso numero del NEJM su cui era comparso il lavoro
relativo alla indagine sullo Stato di New York, comparve un secondo articolo
che approfondiva invece la natura degli eventi avversi.
Una prima distinzione fu effettuata separando gli eventi avversi connessi ad
una procedura chirurgica da quelli senza interventi.
I risultati (Errore. L’origine riferimento non
è stata trovata.) evidenziarono che circa la metà (il
48%) degli eventi avversi (AE) erano in relazione a procedure chirurgiche.
All’interno di questa categoria l’AE più frequente era l’infezione della ferita
chirurgica. L’evento avverso più frequente nelle procedure non chirurgiche era
invece in relazione all’utilizzo di farmaci. Questo era anche l’evento avverso
più frequente in assoluto (19% di tutti i casi).
Come si può evidenziare dalla distribuzione dei casi, solo una parte di questi
eventi avversi era imputabile ad uno “substandard care” o a negligenza.
Come detto in precedenza, il 28% circa di tutti gli eventi avversi era da attribuire a negligenza. Ciò è dovuto al fatto che, come approfondiremo in seguito, non tutti gli eventi avversi sono sinonimo di negligenza o comunque di una pratica ben al di sotto degli standard ritenuti ottimali.
Molti degli eventi avversi identificati non sono nè prevenibili nè prevedibili. Allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, malgrado siano passati oltre 30 anni dall’analisi di questi casi, esistono situazioni che pur classificabili come eventi avversi, ovvero determinati da un trattamento sanitario, avvengono inevitabilmente, con incidenza costante, senza possibilità di poterli evitare.
La reazione idiosincratica ad un farmaco mai somministrato in
precedenza al paziente, l’infarto miocardico post-operatorio o durante
l’intervento chirurgico in un soggetto giovane senza storia di cardiopatia
ischemica, accadono con una frequenza costante ma ricadono in questa categoria.
Altri eventi avversi sono prevedibili quali rischi connessi a determinate
procedure i cui benefici però superano di gran lunga i potenziali danni. Un
esempio di questi utimi può essere il danno indotto da radioterapia (esofagite)
o la ipoplasia midollare in caso di chemioterapia.
Lo stesso errore non è sinonimo di negligenza. Come nel
nostro sistema giuridico anche quello americano stabilisce che la negligenza si
caratterizza dal fatto che l’atto medico sia stato ben al di sotto di quanto
prevede il livello medio di diligenza per un professionista di una determinata
specializzazione.
Alcune volte l’evidenza di negligenza può essere priva di difficoltà (ad
esempio la mancata individuazione di una grossolana alterazione ad una
radiografia), in altri casi ciò è assai più difficile. A seconda delle circostanze,
ci sono situazioni in cui i medesimi atti possono essere considerati negligenti
o no: una diagnosi di appendicite acuta, una errata diagnosi di polmonite
invece di una stasi polmonare da insufficienza cardiaca, la perforazione della
pleura durante l’inserzione di un catetere venoso centrale.
Nel caso della appendicite acuta la negligenza può essere addotta se il caso
era clinicamente evidente con reperti semeiologici, esami ematici che
deponevano inequivocabilmente per tale diagnosi.
Al contrario, una diagnosi errata di appendicite con effettuazione di
intervento chirurgico che non evidenzi alcuna flogosi appendicolare può essere
intesa come errore diagnostico ma non coe atto negligente.
In molte aree della medicina e della chirurgia alcuni di questi errori sono
inevitabili e non possono essere attribuiti a diligenza evidentemente inferiore
alla media.
Come è noto la perfezione non può essere ottenuta in questo
campo in quanto la variabilità biologica e le condizioni ambientali sono tali
per cui la diligenza media o la “standard of practice”, definite
legislativamente in Italia coe “buone pratiche assistenziali” sfuggono ad una
definizione certa. Non a caso nel nostro ordinamento viene comunque data
preponderanza alla valutazione del “caso concreto” prima di giudicare un
presunto errore come un atto negligente, imperito o imprudente.
Con queste premesse, anche l’HMPS, produce una serie di tabelle per
circoscrivere gli ambiti in cui è più frequente incontrare eventi avversi allo
scopo di aumentare l’attenzione su determinate procedure allo scopo di ridurne
l’incidenza.

Oltre alla tipologia di eventi avversi l’HMPS II analizza
anche i “luoghi” in cui essi avvengono.
La maggiorparte degli eventi avversi avvengono in sala operatoria (41%) seguiti
dagli eventi avversi al letto del paziente (27%).
Pronto soccorso, rianimazione e sala parto contribuiscono ciascuno per circa il 3% di tutti gli eventi avversi (Tabella 4). Altre strutture dell’ospedale arrivano a totalizzare il 5% degli eventi avversi. Nella tabella sono anche elencati percentualmente gli eventi avversi che avvengono fuori dall’ospedale e principalmente nello studio del medico territoriale.
Un aspetto interessante della Tabella 4 è la percentuale di negligenza in questi casi. Nella sala operatoria è del 14%, al letto del paziente del 41% mentre in pronto soccorso del 70%. Questa alta percentuale nel pronto soccorso è stata attribuita all’epoca alla presenza di molti medici part-time che non sono sufficientemente addestrati per le attività di pronto soccorso e hanno tempi molto limitati da dedicare al singolo paziente. Elementi che dovrebbero essere tenuti sempre in debita considerazione (riduzione personale, motivazione, tempo ridotto, condizioni di lavoro) e che saranno affrontati successivamente.
